Oltre i titoli: capire la sentenza Turetta e condannare con chiarezza il femminicidio
Turetta non ha avuto sconti né giustificazioni: a mancare di rispetto a Giulia non è stata la sentenza, ma i titoloni che l’hanno raccontata. Per capirlo, basta leggere davvero cosa ha detto la Corte.
Da giorni, dopo la pronuncia della sentenza che ha condannato Filippo Turetta all’ergastolo, il web e i social sono stati travolti da un’ondata di indignazione e rabbia.
Post, articoli e commenti hanno rilanciato con forza titoli come “ha ucciso senza crudeltà” o “per inesperienza”, spesso decontestualizzandoli e trasformandoli in slogan che sembrano suggerire un’ingiustificata attenuazione della responsabilità di Filippo Turetta.
Ma la realtà della sentenza che lo ha condannato all’ergastolo per l’omicidio di Giulia Cecchettin è ben diversa: le motivazioni della Corte raccontano tutt’altro.
Serve chiarezza. Non per ridurre l’orrore del delitto, ma per comprendere come funziona la giustizia e perché è così pericoloso banalizzare le sue parole.
Soprattutto di fronte a un femminicidio, che resta una delle emergenze più gravi e profonde del nostro tempo.
La crudeltà non è un’impressione: è un concetto tecnico
Nell’uso comune, “crudeltà” richiama brutalità, sadismo, ferocia. Ma in ambito giuridico, questa parola assume un significato molto più tecnico e restrittivo. Non basta uccidere in modo violento per far scattare l’aggravante: serve un quid pluris, cioè un’aggiunta gratuita e intenzionale di sofferenza alla vittima, tale da far apparire l’atto non solo letale, ma anche deliberatamente umiliante o torturante.
Spesso la crudeltà, nel senso penale, si manifesta in atti compiuti non durante un’esplosione di rabbia o di panico, ma con freddezza, per infliggere dolore. È un’aggravante che deve essere dimostrata con rigore, anche attraverso perizie mediche e psicologiche, perché ha un impatto enorme sulla pena.
Nel caso di Turetta, la Corte non ha escluso la brutalità dell’azione, ma ha ritenuto che non vi fossero gli elementi tecnici per qualificare giuridicamente la crudeltà come aggravante. Questo non sminuisce la gravità del delitto. È una valutazione tecnica, non morale. E soprattutto, non ha impedito alla Corte di infliggere la pena dell’ergastolo.
L’inesperienza non assolve: aggrava
Altro punto che ha generato polemica è il riferimento all’“inesperienza” dell’imputato.
Anche qui, è necessario uscire dalla logica emotiva e capire cosa ha detto davvero la Corte.
L’inesperienza non è stata invocata come attenuante, né ha portato a sconti di pena. Al contrario: è servita per escludere la tesi difensiva dell’incapacità di intendere e di volere, con cui si cercava di rappresentare Turetta come un ragazzo disorientato, privo di piena consapevolezza.
La Corte, invece, è stata chiara: Turetta ha pianificato lucidamente il delitto, ne ha preparato le fasi, ha messo in atto tentativi di depistaggio e di occultamento del corpo. Era sano di mente, presente a sé stesso, pienamente capace di intendere e volere. L’inesperienza è entrata nel ragionamento giudiziario solo per dire che la goffaggine con cui ha colpito Giulia – le numerose coltellate, l’incapacità di portare a termine “efficacemente” il piano – non è segno di sprovvedutezza, ma di un’agghiacciante inesperienza nel compiere un omicidio. Il risultato è stato un’agonia ancora più lunga e dolorosa per la vittima.
Quindi, l’inesperienza ha aggravato la premeditazione: ha contribuito a rendere la morte di Giulia ancora più straziante, senza per questo togliere nulla alla lucidità con cui è stata concepita.
Un femminicidio, non un delitto d’impeto
Quello di Turetta non è stato un gesto d’impeto. È stato un femminicidio premeditato, commesso con l’idea delirante di avere il diritto di decidere sulla vita e sulla libertà di un’altra persona. La sentenza evidenzia una concezione arcaica e distorta del legame affettivo, fondato sul possesso e sul controllo. Parla di “volontà lucida di mentire”, di un comportamento calcolato, anche nella fuga.
La condanna all’ergastolo, dunque, è pienamente coerente con questo quadro. Nessuna attenuazione. Nessun alibi. Solo la conferma di un crimine odioso, che affonda le radici in una cultura patriarcale e violenta che ancora oggi uccide.
Le parole contano
Strumentalizzare una sentenza così importante per alimentare sfiducia verso la giustizia, o per cavalcare l’indignazione, è un atto irresponsabile.
La magistratura non deve assecondare la pancia, ma applicare il diritto con rigore, nel rispetto delle vittime e delle garanzie costituzionali.
Giulia Cecchettin non può più parlare. Ma possiamo e dobbiamo farlo noi. Con serietà, con fermezza, con rispetto. E soprattutto, con parole che non tradiscano la verità.